– servizio a cura del nostro inviato Edoardo Abruzzese –
Non ritorni dal Forum Internazionale di Green Accord sul problema dei cambiamenti climatici, quello vissuto dal basso, dalle “climate savers”, come sei partito.
No, perchè qui le “chiacchiere” hanno davvero un senso!
Quelle degli scienziati di tutto il mondo, quelle degli accademici e quelle degli “indigeni”che con le loro azioni difendono, troppo spesso a costo della vita, i territori da scelte politiche e industriali sbagliate: sono considerati dai più figli di un Dio minore al punto che in pochi ne sanno qualcosa.
Ecco perchè in questo mio report, pur non tralasciando i focus di interventi che potremmo chiamare istituzionali, desidero soffermarmi, e lo farò in tre momenti diversi, su altrettante storie che credo fermamente debbano essere condivise.
Nella sintesi voglio iniziare con le parole di René Castro Salazar, direttore generale aggiunto della FAO,
“I 100 miliardi previsti per il Green Climate Fund istituito dall’Onu non saranno sufficienti per finanziare tutte le attività di adattamento e mitigazione necessarie a raggiungere l’obiettivo di mantenere sotto i 2°C l’innalzamento della temperatura fissato durante la COP21 di Parigi”.
Pur mantenendo un atteggiamento di scarso ottimismo è necessario guardare oltre la COP21 , per tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema dei cambiamenti climatici e spingere i Paesi a dotarsi di regole più che di impegni volontari per la tutela della salute del pianeta.
Una prospettiva “visionaria” ma certamente innovativa è quella offerta da Robert Costanza, professore di Public Policy alla Crowford School dell’Australian National University che ha lanciato l’idea di creare un “Trust dell’atmosfera terrestre” per permettere di chiedere un risarcimento dei danni per le emissioni di gas climalteranti causate dalle grandi imprese e per finanziare programmi di mitigazione: “considerare l’atmosfera un bene comune che, pertanto, va mantenuto integro per le future generazioni”.
Critiche agli sforzi legati al tema della sostenibilità realizzati finora sono arrivati da Michael Renner, Senior Researcher al Worldwatch Institute che nella sua relazione ha evidenziato come “molti indicatori di inquinamento e consumo di risorse continuano a crescere in modo preoccupante nonostante gli ultimi anni di crisi economica; l’ estrazione di minerali non si è mai arrestata e così pure la produzione energetica: sono tutti fenomeni che provocano una destabilizzazione del clima e mostrano come nessun traguardo ambizioso sia stato ancora raggiunto. Le politiche attuali stanno solo facendo diminuire la crescita delle emissioni nocive, ma non stiamo invertendo la rotta”.
“Ogni anno nel mondo muoiono oltre 700 tra gli attivisti dei movimenti ambientalisti”, ha detto Joan Martinez Alier, economista all’Università Autonoma di Barcellona, il 12% dei conflitti ambientali nel mondo provoca almeno una vittima e nel 2015 sono stati uccisi tre ambientalisti a settimana”.
“Numeri incredibili che nascono da conflitti di distribuzione socio-ecologica che portano ad un accesso poco equo delle risorse naturali, generando quei movimenti di ambientalismo dei poveri e degli indigeni evidenziati anche dall’enciclica di papa Francesco”.
“ Le religioni detengono il 20% dei terreni agricoli e oltre il 15% del Pianeta è considerato sacro” ha ricordato Martin Palmer, direttore generale Arc, Alliance of Religions and Conservation di Londra.
Proprio da questa affermazione io credo scaturisca la testimonianza di Wahleah Johns, coordinatrice del Solar Project della Black Mesa Water Coalition.
Per la maggior parte della loro lunga storia i Navajo ebbero un governo costituito da un complesso sistema di clan, ma quando nel 1920 nel territorio della riserva fu scoperto il petrolio , gli Stati Uniti spinsero la tribù a realizzare un governo centralizzato che potesse stipulare contratti con aziende ansiose di stringere alleanze per la gestione di quelle ricchezze minerarie: il conseguente flusso di entrate dallo sfruttamento di petrolio, uranio e carbone arricchì l’economia dei Navajo, ma il costo che la tribù dovette pagare in termini di salute fisica e cultura del suo popolo fu enorme.
Wahleah Johns è cresciuta in una comunità Navajo nel territorio della Black Mesa, detto anche Big Mountain, un vasto altopiano dell’ Arizona nord orientale; la Peabody Energy attuò proprio in quel territorio la più grande operazione di sfruttamento su terra indiana, una operazione che sottrasse per il trasporto del carbone tre milioni di galloni di acqua dalla falda acquifera del deserto attraverso un condotto che dalla riserva Hopi e Navajo raggiungeva il Nevada.
Nel 2001 un gruppo di studenti appartenenti ai Navajo, Hopi e Chicano, presentarono alla Northern Arizona University una relazione dettagliata che denunciava le conseguenze della crescente scarsità di acqua: si formò così la Black Mesa Coalition, una alleanza “di rabbia e di paura”, con l’obiettivo di salvare la terra e il futuro. Con l’incoraggiamento di un professore di antropologia e di alcuni ambientalisti , la coalizione si strutturò e cominciò a diffondere il suo messaggio tra i coetanei.
Nel 2003, la coalizione di giovani studenti decide di staccarsi dall’università e di consolidarsi tra le comunità indigene del territorio: Wahleah Johns aderisce alla coalizione e ne diviene il co-direttore. Inizia una campagna senza precedenti per sensibilizzare i governatori delle Comunità tribali direttamente interessate, per fermare il degrado ambientale e sostituire le operazioni estrattive con alternative sostenibili.
L’attivismo della Coalizione, composta in gran parte da giovani donne, suscita l’indignazione dei capi tribali che temono il crollo della loro economia, inizia così una vera e propria guerra contro i gruppi ambientalisti ritenuti la minaccia più grave alla sovranità tribale.
Wahleah Johns e il suo team continuano imperterriti: l’impegno è quello di tradurre il senso del “verde” in valori tradizionali dei Navajo, quelli di rispetto e di riconoscenza nei confronti della terra, dell’ aria e dell’acqua. La Coalizione si impegna nella divulgazione dei valori portanti della società Navajo soprattutto con l’intento di costruire un saldo legame tra 110 comuni in un territorio in gran parte non mappato, non asfaltato delle dimensioni dell’Irlanda.
Nel luglio 2009, la regione Navajo diviene la prima nazione indiana americana a promulgare una legislazione del lavoro “verde”: la Green Economy Act Navajo istituisce una Commissione con lo scopo di democratizzare il processo decisionale tribale e di accelerare la transizione verso un futuro più sostenibile.
Da più di venti anni il popolo Navajo è impegnato in attività “verdi” come l’allevamento di bestiame, la tessitura e l’agricoltura.
Oggi in una comunità che vive senza elettricità da combustibili fossili, c’è una donna che studia e realizza impianti di energia solare, che incrementa la produzione di filati, che organizza mercati di prodotti biologici e che viene nell’altra parte del globo a raccontarci la sua storia!
Dimenticavo: Wahleah Johns ha due figli, Tohaana che significa “protettore dell’acqua” e Alowaan che evoca nel nome l’antica canzone dei Navajo!