di Jacopo Zucchini – Foto di Edoardo Abruzzese
Siamo giunti all’approvazione della riforma della “buona scuola” e lo scontro è più che mai aperto su tutti i fronti, ma non voglio entrare nel merito, ne stanno parlando già in troppi e ognuno vuole ragione, e probabilmente ha anche le “sue” ragioni.
Per prima cosa voglio dire che la buona scuola non è solo quella degli edifici che non cadono a pezzi, degli insegnanti che fanno carriera per merito, o delle decine di migliaia di precari immessi finalmente nei ruoli for ever, non sono le lavagne interattive e nemmeno la formazione dei programmi telematici, la buona scuola deve esprimere in modo concreto e vitale l’idea di ciò a cui la scuola deve servire, il tipo di persona che si vuole formare e del Paese che in questo modo si vuole contribuire a costruire.
Se usiamo questa chiave di lettura siamo davvero in grado di analizzare i provvedimenti in maniera oggettiva e non sterile.
Io voglio fare un esperimento: scelgo la chiave e affronto ad esempio gli aspetti legati alla non facile convivenza tra scuole pubbliche e scuole riconosciute legalmente (tralascio volontariamente quelle private a tutti gli effetti).
In un recente comunicato del presidente dell’ANINSEI (Associazione Nazionale degli Istituti non Statali di Educazione e Istruzione ), Luigi Sepiacci, infatti, la riforma della buona scuola è stata duramente attaccata ed è terreno di scontro dal fronte delle scuole private.
Il motivo? Se la riforma divenisse legge senza modifiche importanti le scuole paritarie rischierebbero di “scomparire per l’impossibilità di arruolare insegnanti qualificati”.
E qui mi devo fermare per un passo indietro.
L’aspetto che più degli altri, a prima vista, differenzia la scuola pubblica da scuola privata, è la struttura. Le scuole private, complice il costo delle rette, una gestione forse più attenta delle risorse ma anche i finanziamenti statali, riescono a mantenere migliori gli ambienti. Le scuole pubbliche, invece, sono spesso molto grigie e la buona volontà di alcune insegnanti che, pennello in una mano e pennarello dall’altro, colorano finestre e muri, non sempre porta a risultati davvero gradevoli. Tuttavia l’abito non fa il monaco, recita un vecchio proverbio, ed è quindi necessario andare più a fondo. Certo è che una struttura fatiscente è comunque sconsigliabile, sia nella buona che nella “non buona scuola”!!.
Ma andiamo avanti
Qualche mese fa fece grande scalpore la lettera di un preside di scuola privata, Giuliano Romoli della Scuola Spallanzani di Reggio Emilia, il quale chiedeva a gran voce che finalmente e per legge i presidi potessero licenziare gli insegnanti in base ai risultati deludenti dei test invalsi delle loro classi, e che ci si decidesse finalmente a smantellare la scuola pubblica in favore della privata: se le prove invalsi dovessero dimostrare che gli Istituti paritari conseguono risultati migliori delle scuole statali, verrebbe da pensare che lo Stato dovrebbe favorire questo segmento del sistema dell’istruzione. In Italia le famiglie spesso credono fermamente che se vogliono dare al proprio figlio una istruzione di qualità l’unica strada sia rivolgersi al settore privato, e per questo chi iscrive i figli agli istituti privati invoca poi contributi dalle Regioni e dallo Stato per pagare le rette, motivando la richiesta con una specie di “necessità” a iscrivere i figli a scuole non pubbliche per garantire loro una formazione competitiva e articolata. È davvero così? A guardare i risultati delle scuole private (più correttamente definite“paritarie”) ai test Ocse verrebbe da pensare che iscrivere un figlio a una scuola non pubblica, in Italia, è sostanzialmente un’inutile perdita di denaro. I test Ocse misurano, in maniera più articolata dei famosi Invalsi nazionali, le competenze fondamentali dei quindicenni europei. Sono gli unici test ritenuti validi a livello internazionale, perché basati sul programma Pisa (Programme for International Student Assessment), riconosciuto in tutto il mondo. Vengono svolti in 57 nazioni europee e corretti e valutati da commissioni indipendenti. I test quantificano la competenza degli alunni in diverse discipline, ma si concentrano soprattutto sulla capacità di comprendere i testi, sulle abilità di calcolo e matematiche e sulle capacità di ragionamento scientifico. L’Italia nella classifica generale non è messa bene: rispetto ai coetanei di altri Paesi europei, i nostri ragazzi si dimostrano ancora debolucci, anche se in leggero miglioramento rispetto agli anni passati. Ma se si vanno ad analizzare i dati scorporandoli, e quindi analizzando in maniera differenziata i dati provenienti dalle varie aree geografiche e dai diversi tipi di scuola, il panorama che ne esce smantella parecchi luoghi comuni. La tanto vituperata scuola pubblica, infatti, ne esce in maniera più che dignitosa: se ci si limitasse a prendere i risultati dei suoi alunni, si piazzerebbe al 23esimo posto in classifica. I ragazzi italiani che frequentano la scuola pubblica, infatti, hanno conoscenze matematiche e scientifiche di poco inferiori a quelle dei coetanei europei più “bravi” (ma, non dimentichiamolo, anche frequentanti scuole di nazioni che investono quasi il doppio dell’Italia nell’istruzione), e sono in pratica pari alla media europea nella comprensione del testo. Quello che fa precipitare l’Italia dal 23 al 30 posto sono invece proprio i risultati delle scuole private, i cui alunni hanno conoscenze matematiche e scientifiche abbastanza carenti e notevoli difficoltà nella comprensione del testo. Uno studio degli economisti di lavoce.info ha poi ulteriormente analizzato i dati, osservando che le scuole finanziate dallo Stato (cioè le paritarie) sono quelle i cui alunni hanno i risultati peggiori in assoluto. Insomma, nel panorama forse non esaltante della istruzione italiana, la scuola pubblica, soprattutto al nord, riesce a sfornare alunni che hanno competenze pari a quelle dei coetanei europei, e quindi un domani potranno essere competitivi sul mercato internazionale del lavoro; mentre la scuola privata, soprattutto il comparto delle paritarie che ricevono fondi pubblici, prepara gli alunni in modo carente e ben al di sotto degli standard dell’istruzione media. Il settore privato, infatti, vanta sicuramente alcuni istituti di “eccellenza”, ma il grosso delle scuole, in realtà, non dà alcuna garanzia di preparazione migliore,anzi. Forse questi dati andrebbero divulgati presso le famiglie, spesso convinte a torto che la scuola privata di per sé garantisca ai loro figli una istruzione più qualificata. Ma, alla luce dei risultati Ocse, si tratta spesso solo di una pia illusione: le scuole pubbliche, pur con tutte le loro carenze e problemi, preparano meglio gli alunni. E gratis.
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Allora qual è il punto: le scuole private devono smettere di essere dei diplomifici dove dal momento che si paga si ha diritto di ottenere risultati positivi; è giusto che esistano, nel confronto c’è saggezza e progresso, è giusto che le famiglie possano scegliere non secondo mezzi economici, ma secondo opportunità diversificate, ma è altrettanto giusto che la graduatoria da cui attingere gli insegnanti sia unica, come identico deve essere il criterio di attribuzione del punteggio per il periodo di insegnamento e quello per l’individuazione degli obiettivi dei “Progetti formativi”.
Quindi se al decreto della buona scuola qualcosa manca ( forse è un eufemismo!!!) è il progetto attraverso il quale “Scuola” (e qui adopero la lettera maiuscola!) , al di là di assunzioni, autonomie, sceriffi e soldi, nozioni, pof e mof, è dove si formano caratteri e personalità, dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo e della società in cui i bambini, i ragazzi, i giovani sono chiamati a vivere!
Dida foto: Edoardo Abruzzese, Firenze, aprile 2015