di Sergio Bedessi –
Con il cosiddetto “decreto salva Italia” (decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”), è stato modificato il “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” (D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286), aggiungendo all’articolo 5 dello stesso un nuovo comma 9-bis, dagli importanti effetti.
Sotto il fuorviante titolo dell’articolo 40 del decreto salva-Italia (Riduzione degli adempimenti amministrativi per le imprese), al comma 3 viene disposto l’inserimento di un nuovo comma 9-bis all’articolo 5 del Testo unico sull’immigrazione, che recita:
“9-bis. In attesa del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno, anche ove non venga rispettato il termine di venti giorni di cui al precedente comma, il lavoratore straniero può legittimamente soggiornare nel territorio dello Stato e svolgere temporaneamente l’attività lavorativa fino ad eventuale comunicazione dell’Autorità di pubblica sicurezza, da notificare anche al datore di lavoro, con l’indicazione dell’esistenza dei motivi ostativi al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno. L’attività di lavoro di cui sopra può svolgersi alle seguenti condizioni:
a) che la richiesta del rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro sia stata effettuata dal lavoratore straniero all’atto della stipula del contratto di soggiorno, secondo le modalità previste nel regolamento d’attuazione, ovvero, nel caso di rinnovo, la richiesta sia stata presentata prima della scadenza del permesso, ai sensi del precedente comma 4, e dell’articolo 13 del decreto del Presidente della Repubblica del 31 agosto 1999 n. 394, o entro sessanta giorni dalla scadenza dello stesso;
b) che sia stata rilasciata dal competente ufficio la ricevuta attestante l’avvenuta presentazione della richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso.”».
La norma in questione, per essere compresa nella sua portata, deve essere letta in congiunzione con il preesistente comma 9 dello stesso articolo 5.
Cosa si può osservare? Il nuovo comma 9-bis che in inserisce in un contesto di forsennata e compulsiva adesione alle politiche neoliberiste di annullamento di qualsiasi controllo ex-ante da parte dello Stato, nella falsa utopia che la pubblica amministrazione sia in grado solamente con i controlli ex-post di regolamentare e controllare dinamiche sociali ed economiche sempre più complesse e fenomeni così imponenti come l’immigrazione, cosa che con la progressiva riduzione delle risorse pubbliche sarà sempre meno possibile, rende legittima lapermanenza sul suolo italiano dello straniero che abbia semplicemente richiesto il permesso di soggiorno (od anche ne abbia richiesto il rinnovo), malgrado sia scaduto il termine dei venti giorni senza averlo ottenuto.
In questo modo si vanifica la più logica interpretazione della norma del comma 9 che andava intesa nel senso che il termine di venti giorni era un termine ordinatorio (e non perentorio) per la pubblica amministrazione, da rispettarsi solo nel caso che i controlli posti a presidio del rilascio del permesso di soggiorno avessero avuto esito positivo, ma da procrastinarsi nel caso i controlli fossero stati più complessi.
Insomma la precedente norma prevedeva: venti giorni per i controlli tesi a verificare «… i requisiti e le condizioni previsti …» dal testo unico e dal regolamento di attuazione, ma con la possibilità di non rispettare il termine qualora questi controlli avessero dato esito non positivo, il tutto a tutela della sicurezza pubblica.
Il nuovo Governo, anziché procedere sul fronte delle risorse da investire a tutela del bene più prezioso per tutti i cittadini, la sicurezza, si è incamminato, in quanto strada ben più facile, sul fronte suggerito dal filo conduttore di smantellamento progressivo dello Stato e delle sue prerogative: annullare qualsiasi controllo sulle attività private.
Si è acriticamente sposata la tesi della giurisprudenza amministrativa che in merito al contenzioso generato dal mancato rispetto del termine dei venti giorni era intervenuta a più riprese, peraltro con sentenze molto spicce, quasi fotocopie l’una dell’altra, nelle quali si sanciva non l’illegittimità del silenzio rifiuto sulla richiesta di permesso di soggiorno tenuto conto dei positivi accertamenti per ottenerlo, bensì l’illegittimità del semplice silenzio, riportando il procedimento di rilascio del permesso di soggiorno (o di rinnovo) nell’alveo della legge 241/1990, e quindi stabilendo il diritto dello straniero ad ottenere, in ogni caso, una conclusione esplicita del provvedimento entro il termine dei venti giorni.
Del resto alcuni quotidiani da sempre noti per il loro taglio neoliberista hanno sostenuto le stesse tesi, parlando addirittura di un milione di stranieri in attesa del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno nel 2010, facendo notare come un immigrato dovesse attendere, secondo i dati stessi del Viminale, ben 291 giorni contro i previsti 20, per il rilascio, il rinnovo o la conversione del permesso.
Cosa si prevede adesso? La norma, andando a consolidare improvvisamente l’orientamento giurisprudenziale, annulla di fatto il termine dei venti giorni, facendo sì che affinché la permanenza sul suolo italiano sia regolare, basti la presentazione della sola richiesta di rilascio o di rinnovo, purché sussistano due condizioni esplicite:
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che venga rilasciata la ricevuta attestante l’avvenuta presentazione;
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che la richiesta sia stata effettuata al momento della stipula del “contratto di soggiorno”.
Con la dizione “contratto di soggiorno” il legislatore non può che riferirsi al “contratto di soggiorno per lavoro subordinato”, quello previsto dall’art. 5 bis dello stesso T.U., un contratto sottoscritto presso lo sportello unico per l’immigrazione (ai sensi del comma 3 dell’art. 5-bis) e che contiene:
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la garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio che rientri nei parametri minimi relativi agli alloggi di edilizia residenziale pubblica;
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l’impegno al pagamento da parte del datore di lavoro delle spese di viaggio per il rientro del lavoratore nel paese di provenienza.
E’ evidente come la nuova norma inserita nel T.U. dal d.l. 201/2011 vada a costituire una apertura indiscriminata all’immigrazione per lavoro, nel contempo risultando come una sorta di conferimento ai datori di lavoro di una potestà certificatoria sulla legittimità del soggiorno.
La norma pone inoltre qualche problema di disparità di trattamento fra chi richiede il permesso di soggiorno per lavoro e chi lo richiede per studio o per altri motivi, potendo potenzialmente risultare incostituzionale per violazione dell’art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali…”.
A questo si aggiunga infine che la nuova norma incide fortemente anche sui controlli: infatti in relazione al comma 3 dell’art. 6 dello stesso D. Lgs. 286/1998 (“3. Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2.000.”) la regolarità della presenza potrà adesso essere provata, anziché esibendo il permesso di soggiorno, mostrando la ricevuta della presentazione dello stesso e copia del contratto di soggiorno dal quale sia rilevabile la contemporaneità della stipula rispetto alla richiesta del permesso.