di Sergio Bedessi – L’economia globalizzata, che avvantaggia i Paesi che possono produrre beni a costi più bassi come la Cina, molte volte senza riguardo sia alla qualità di questi beni, sia alle modalità di produzione poco rispettose dell’ambiente e delle condizioni dei lavoratori, ha fatto (in senso metaforico) un’altra vittima illustre: il pianoforte del grande musicista Fryderyk Chopin.
È notizia di questi ultimi giorni che la fabbrica francese di pianoforti Pleyel, già da tempo ridotta di capacità produttiva, dopo duecento anni di carriera gloriosa, e con clienti come Liszt, Debussy, Ravel, Stravinski e, appunto il grande Chopin, chiuderà i battenti.
La fabbrica Pleyel è stata fondata nel 1807 da Ignaz Joseph Pleyel, un austriaco poi naturalizzato francese con il nome di Ignace, allievo addirittura di Joseph Haydn; egli, dopo aver lavorato come editore musicale (La maison Pleyel), stampando fra l’altro la prima edizione dei quartetti per archi dello stesso Haydn, si era messo a costruire pianoforti.
Con il tempo la fabbrica, probabilmente la prima vera e propria industria francese, era divenuta una delle più famose fabbriche di pianoforti; da considerare che fino ad oggi ha prodotto oltre 250.000 pianoforti, molti dei quali di altissima qualità.
Fra pochi giorni, tutto questo non sarà più; il presidente di Pleyel, Bernard Roques, in un comunicato ha detto: “L’azienda Pleyel conferma la chiusura della sua fabbrica a Saint-Denis, che dà lavoro a 14 dipendenti, tenendo conto della situazione di continue perdite e del livello molto debole di attività”; in questo modo decretando la morte non solo di un pezzo di storia francese, ma di un pezzo importante della storia della musica e della cultura occidentale.
La società Pleyel aveva già chiuso nel 2007 la precedente sede di Alès, traslocando a Saint Denis dove si era concentrata su modelli di alta gamma, ma tutto questo evidentemente non è servito ad evitare il declino.
La ragione della chiusura è dovuta al fatto che ormai anche strumenti musicali di alto livello come i pianoforti, di fattura essenzialmente artigianale, risentono fortemente della concorrenza asiatica (in particolare Cina e Corea del Sud); i Paesi di questa area sono infatti in grado di produrre strumenti che, pure avendo una qualità ovviamente più bassa, hanno un costo che è però quattro o cinque volte più basso della concorrenza occidentale.
A questo si aggiungono altri fenomeni: Paesi di aree diverse, come per esempio il Giappone, pur mantenendo la propria produzione (anche nello stesso campo della produzione dei pianoforti), hanno esternalizzato in altri Paesi, appunto come la Cina e la Corea del Nord, alcune linee produttive, abbassando fortemente i costi (ed anche la qualità), ma mantenendo saldamente in mano il prodotto finale e dunque riuscendo ad essere competitivi sui Paesi europei.
Tornando all’argomento, si può dire che il pianoforte di Chopin, chiamando in questo modo tutti i pianoforti Pleyel (il musicista, ricordato come “il poeta del pianoforte” durante il suo esilio in Francia si recava regolarmente in una casa di Parigi dove teneva concerti per amici ed altri artisti, suonando appunto un pianoforte Pleyel del 1843) è una delle ultime illustri vittime delle politiche neoliberiste, politiche economiche portate avanti più dai finanzieri più che dai veri economisti, pervase dalla pazzia che il mercato possa essere un magico equilibratore di tutto.
Alla base delle politiche cosiddette neoliberiste si trova una serie di concezioni politiche, economiche ed anche filosofiche che, pur non essendo ben definite, hanno il minimo comune denominatore dell’esaltazione del libero mercato con una contemporanea riduzione dell’importanza della struttura statale all’interno della società.
Lo scopo di queste politiche è quello che la funzione regolatrice dello Stato, in tutti i campi, ma principalmente in quello economico, venga ridotta al minimo, così da consentire ai privati di massimizzare i propri profitti nella convinzione (che risale addirittura ad Adam Smith, con la teoria della “mano invisibile”) che questa logica, operando in regime di mercato libero e privo di qualsiasi vincolo, porti automaticamente alla diminuzione dei prezzi dei beni e dei servizi.
In somma sintesi il neoliberismo propugna uno svincolo totale dell’economia rispetto allo Stato, un mercato perfettamente libero, una totale deregolamentazione, non solo economica ma anche sociale, l’abbattimento delle tasse tramite la riduzione al minimo della spesa pubblica, la dismissione da parte dello Stato e degli enti pubblici delle attività non strettamente correlate alle uniche funzioni regolative che il neoliberismo ammette (ad esempio la funzione di polizia, oppure le funzioni anagrafiche).
Il neoliberismo inoltre, in modo abbastanza simile alla filosofia politica sottesa alla costituzione degli Stati Uniti, sostiene la supremazia dei valori collegati all’avere, come la proprietà privata, rispetto a quelli collegati all’essere, come la tutela dei diritti.
Se Adam Smith è colui che ha ispirato l’idea dell’equilibrio del mercato in mancanza di intervento esterno, secondo la sua teoria della “mano invisibile”, poi avvalorata successivamente da David Ricardo con la teoria del libero scambio che propugnava il laissez-faire, il neoliberismo nasce come opposizione alle teorie di John Maynard Keynes fautore dell’intervento pubblico come elemento di sostegno alla domanda, per evitare il rischio che, al momento della diminuzione della domanda si ingeneri un meccanismo di reazione da parte degli operatori economici che porti ad un’ulteriore diminuzione della domanda aggregata.
In pratica secondo Keynes l’intervento pubblico risultava necessario, anche a costo di determinare un deficit, ma con il vantaggio di far aumentare i consumi, gli investimenti e l’occupazione e dunque con un accrescimento complessivo di ricchezza.
L’iniziale fautore delle dottrine neoliberiste, in contrapposizione alle dottrine di Keynes, fu l’economista austriaco Friederich von Hayek (poi divenuto cittadino britannico), che propugnava un ordine mondiale regolato solo da leggi economiche, senza alcuna interferenza da parte dello Stato, un modo pressoché irreale nel quale non vi era posto per politiche di sostegno al reddito, politiche sociali, e così via, in pratica dove non vi era posto per economie miste, dove il capitale statale andava a sostegno di aziende nazionalizzate capaci di fornire servizi pubblici a prezzi accettabili e dove la crescita era condivisa dall’intera popolazione.
Ma il vero neoliberismo, forte di una base teorica importante, si è sviluppato grazie ad un allievo di Hayek, Milton Friedman, che ha riproposto appunto un vero e proprio nuovo liberismo, dietro al quale vi è la visione di un mondo dove tutti i fenomeni economici aggregati, come la domanda, l’offerta, la disoccupazione, l’inflazione, e così via, sono visti come forze naturali che agiscono nell’ambito del mercato, valutato come un ambiente naturale dove è possibile una sorta di autoregolazione e dove ogni cosa funziona necessariamente alla perfezione.
In pratica, secondo Friedman (cfr. Capitalism and Freedom, University of Chicago Press, 1982), il mercato libero avrebbe portato al miglior prezzo possibile per ogni prodotto posto in vendita, oppure alla realizzazione del giusto numero di prodotti o, ancora, alla massima occupazione possibile per tutti, e così via; ovvio che tale visione oltre che utopistica è fortemente viziata da tratti ideologici totalmente privi di senso storico.
Emblematico il fatto che per il maestro di Friedman, von Hayek, la civilizzazione era addirittura da attribuirsi all’espansione della proprietà privata (cfr. “The Fatal Conceit: The Errors of Socialism, University of Chicago Press, 1988”)!
Comunque per Friedman lo stato ideale del mercato si raggiunge grazie alla deregulation (annullamento delle regole che limitano l’accumulazione del profitto), alla privatizzazione (che parte dall’assioma che i servizi privati sono più efficienti di quelli pubblici), alla riduzione delle spese sociali (per ridurre le tasse).
Il successo delle teorie di Hayek e di Friedman è testimoniato dal fatto che ad ambedue fu assegnato il premio Nobel per l’economia (Hayek 1974, Friedman 1976).
Alle politiche neoliberiste si vanno a sommare gli effetti deleteri della moneta unica, l’euro: i beni prodotti dalla singole nazioni (come appunto i pianoforti francesi) non possono più beneficiare di una eventuale svalutazione della moneta, visto che questa è unica, dunque sono destinati a soccombere davanti all’aggressione di prodotti provenienti da Paesi extraeuropei; in pratica il meccanismo di equilibrio che consentiva prima di migliorare la propria competitività verso l’Estero, grazie alla svalutazione della moneta nazionale, è stato devastato dall’avvento dell’euro.
In definitiva le singole nazioni e i loro governanti sembrano ormai solo marionette che si muovono a comando, su disposizione di un’oligarchia sovranazionale agganciata ad una Europa di pochi, che sta mettendo in atto pervicacemente le teorie di von Hayek e di Friedman, impoverendo tutti gli Stati nazionali, dismettendoli e costringendoli a svendersi ed il cui unico scopo è quello di far aumentare i propri capitali grazie alle speculazioni e alle scorribande finanziarie che mette in atto.
Grazie a tutto questo, molte realtà produttive che erano vanto e tradizione delle varie nazioni, come la Francia o l’Italia, scompariranno per sempre, rimpiazzate da misere scopiazzature provenienti dall’est, di basso costo, ma di altrettanto bassa qualità, solo perché non si è voluto, in nome del dio neoliberismo, provvedere ad adottare meccanismi di tutela delle nostre produzioni.
Nel frattempo in Francia con il nome Pleyel rimarranno solo due cose: la Salle Pleyel, una delle più grandi sale da concerto esistenti ed unica sala costruita specificamente per la musica sinfonica, originata dalle due precedenti sale da concerto (una delle quali accolse anche Fryderyk Chopin nel 1832 e nel 1848, quando dette proprio lì il suo ultimo concerto) costruite da Camille Pleyel, figlio di Ignace Pleyel, appunto il fondatore della fabbrica di pianoforti, e la stazione della metropolitana Carrefour Pleyel, inaugurata nel 1952, un omaggio sempre a Pleyel, la cui fabbrica di pianoforti all’epoca si trovava proprio nei pressi, da cui il nome alla vicina Rue des Pianos.