di Walter Veltroni – foto di Edoardo Abruzzese –
Fra tante parole… noi di OrientePress abbiamo scelto queste!
«Sono tornato là dove non ero mai stato». Queste parole di una poesia di Giorgio Caproni possono guidare il nostro cammino, obbligato cammino, verso la fine di questo tunnel fatto a U, il cui obiettivo, assurdo per un tunnel, è riportarci dove eravamo, prima. Prima che improvvisamente tutto cambiasse. Cambiasse oggi, cambiasse il domani. Una geniale vignetta di Makkox ben rappresenta il sentimento di questi giorni. Un gigantesco coronavirus, con quella forma che abbiamo imparato a odiare, si presenta, come fosse un mostro degli Avengers, in una città ormai deserta. È furioso e urla: «Dove c…. siete tutti?». La nostra strategia di vittoria con il mostro infatti non è disporre armi potentissime, delle quali peraltro non disponiamo. È sparire, non farci vedere, diventare invisibili. Come si fa con le dittature.
Quando ci si volatilizza, e insieme si stende una tela di fili. Per resistere, per non sentirsi soli. Alla fine per vincere la guerra. La guerra che nessuno si aspettava, quella contro l’aria che respiriamo. Gli altri da noi oggi sono il pericolo. Sono loro, portatori innocenti e inconsapevoli, a mettere in gioco la nostra stessa vita. Eppure mai come oggi abbiamo imparato ad amare gli altri. A sentire il bisogno di loro. Lo vediamo quando, alle 12 o alle 18, convocati nessuno sa da chi, apriamo le finestre e ci troviamo a salutare il vicino di casa e quello della finestra di fronte. O a rivolgere dai balconi di Palermo o di Torino un applauso a quelli, tra noi, che sono al fronte. Come se nel 1943 — quando quello sciagurato del duce mandò a morire decine di migliaia di poveri cristi nel gelo della Russia — dalle finestre di tutta Italia si fosse lanciato un applauso per quei fratelli lontani, nel ghiaccio e nel sangue.
Fuor di retorica, se ne sente molta, gli italiani stanno rispondendo al più lungo coprifuoco della loro storia mostrando le loro virtù migliori. Con sobrietà, compostezza, umanità. Si scambiano affetto e compagnia, istruzione e consigli attraverso i social, si commuovono per una canzone che vola nelle strade o per una tromba che suona da dietro una grata. Gli «italiani di marzo» si stringono a quel manipolo di competenti — gli infermieri, non solo i professori — che combattono in prima linea e sono perfino disposti, con un macigno nel cuore, a vedere andar via i propri cari senza poter stare loro vicini. Non ci sono state scene di panico né, a parte le conseguenze di un errore di comunicazione una settimana fa, il prevalere della paura sulla razionalità.
Ma dobbiamo sapere che questa compostezza, se lo Stato e le istituzioni non saranno in grado di arginare lo tsunami economico e sociale prodotto dalla crisi, potrà ribaltarsi in odio e ribellione. Non dimentichiamolo, ora. Non ci stiamo a decantare la bellezza di questi giorni. Non ne avremo nessuna nostalgia. Riflettiamo, invece. Ad esempio sul diverso rapporto col tempo che questa condizione ci impone. Gli africani, guardando il modo frettoloso in cui noi viviamo, hanno coniato una specie di proverbio: «Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo». Il tempo improvvisamente non ci sembra più un groviglio inestricabile che ossessiona la nostra giornata, ma una spianata brulla. Siamo diventati padroni del tempo e non siamo abituati, essendone stati schiavi, sempre di più schiavi. E il tempo ci spinge a cercarci. Ora vorremmo avere tutti qui. Le persone che amiamo, gli amici più cari, quelli che non vediamo da anni. Vorremmo convocarli tutti e abbracciarli tutti. Forte, a lungo. Per ritrovarsi, per capirsi, per scusarsi. L’unità di misura del tempo non sono le ore, sono gli altri. Se non ci fossero loro, collegati sui social o per telefono, quella spianata brulla ci sembrerebbe l’inferno. Ce ne dovremo ricordare, dopo.
La società nella quale vivevamo, prima, era feroce. La sua icona più stupida e chiara è la corsa per accaparrarsi il meglio, quando si aprono le porte dei negozi del Black Friday. O, ben più tragicamente, la volontà manifestata in questi giorni da Trump di acquistare da una ditta tedesca a suon di miliardi il vaccino contro il virus. Ma a condizione che «sia solo per gli Stati Uniti». Tutti nemici, senza il tempo per pensare a null’altro se non a sé stessi. Quando usciremo dalle nostre case il segno che ci lascerà questa spaventosa crisi sarà il valore dell’altro. Spero che si vergognerà chi, prima, contestava il sapere dei medici. Spero che si vergognerà chi insultava gli insegnanti, chi sbeffeggiava ogni competenza. Spero che si vergogneranno i predoni del profitto ad ogni costo e i sostenitori dei muri. Che i poveri non riescono a valicare, ma i virus sì.
Sarà un nuovo mondo quello che troveremo fuori dalle nostre case. E l’intensità della luce, fuori dal tunnel, dipenderà da quanto sole ciascuno di noi porterà. Saranno tempi duri, dopo. Tempi per grandi leadership, in tutto il mondo. Tempi in cui ogni persona, davvero ciascuno lo farà, misurerà quanto lo Stato gli sia vicino. La democrazia sarà a dura prova, superata questa. Ma, come fu dopo la guerra, il mondo potrà rinascere migliore di com’era.
Sempre Caproni, alla fine di quella poesia che si chiama «Ritorno», dice: «Tutto è ancora rimasto quale mai l’avevo lasciato».
Quando torneremo ad abbracciarci non dovremo essere dei sopravvissuti, ma degli architetti di una vita nuova!.